di Lorenzo Parolin[S3/45]
Articolo scritto il 03 05 09
Non badare se la prendo un po’ alla larga, la domanda a cui voglio rispondere è: “Quante tasse paghiamo?”
Il prodotto interno lordo è un numero che viene assunto dagli economisti come indicatore del benessere (tenore di vita) di una collettività. Per l’Italia, nell’anno 2008, calcolato a prezzi di mercato, è stato di 1.572 miliardi di € (dati Istat). Poiché, nello stesso periodo, il numero di abitanti regolari (stranieri compresi) ha toccato i 60 milioni di unità, il PIL medio pro capite (bambini e vecchi compresi), è stato di 26.200 €. Il numero è confortante, perché ci dice che dovremmo essere tutti ricchi, invece tanta parte di quel tesoro si perde per strada o rappresenta una spesa, come si capirà dopo che avremo imparato a calcolarlo secondo i tre metodi classici di determinazione.
Metodo del valore aggiunto. Un sarto che compera tela, filo e bottoni, spendendo 100€ + 20 di iva, e vende il vestito a 300€ + 60 di iva, con il suo lavoro conferisce al prodotto un valore aggiunto di 300 – 100 = 200€ al quale aggiunge l’imposta sul valore aggiunto (l’iva) di 40€ (il 20% di 200), che versa nelle casse dello Stato. Le differenze tra le fatture di vendita e le fatture di acquisto (nel nostro esempio 360 – 120 = 240€), sommate nell’arco di un anno per tutte le attività che possiedono partita iva, danno la componente N°1 del Prodotto Interno Lordo di una nazione. Questa voce dà conto di tutto il lavoro privato della nazione. Salta subito all’occhio che le materie prime non entrano mai nel calcolo del PIL, perché vanno sempre in detrazione alla voce acquisti. Noto il monte delle imposte versate dalle aziende, l’ufficio centrale dell’iva può risalire al valore aggiunto globale con facilità. Ma anche una scuola, una caserma dei carabinieri o qualsiasi organismo statale producono valore aggiunto: essi “vendono” servizi ai cittadini, e benché non emettano fatture essi incassano dallo Stato gli stipendi del personale e le spese di gestione delle strutture. Queste voci di spesa, essendo il corrispettivo di un valore aggiunto, per convenzione vanno a formare la componente N°2 del PIL nazionale.
+ Fatture di vendita - Fatture di acquisto --------------------------------------- = Valori aggiunti dalla produzione e dai servizi, iva compresa (componente N°1 del PIL) ……………… +
+ Stipendi degli statali + Spese di gestione del Sistema --------------------------------------- = Valore aggiunto generato dal Settore pubblico (componente N°2 del PIL) ……………… + ------------------ PIL nazionale =
Va subito notata l’assurdità che se la macchina dello Stato mangiasse più soldi, il PIL aumenterebbe. Chiariamo ora perché il Prodotto Interno si dice Lordo: non tiene conto degli ammortamenti, i quali, essendo la perdita di valore (usura) subìta dai beni strumentali (macchinari) delle aziende nell’anno in esame, andrebbero detratti. Facendolo, si otterrebbe il prodotto interno netto (PIN) che si attesterebbe tra il 90 e il 93% del PIL.
Metodo del reddito. Distogliamo ora lo sguardo dai beni prodotti e fissiamolo sulle persone che li producono. Poiché i valori aggiunti ai prodotti avvengono ad opera della manodopera, essi verranno ripartiti in qualche modo tra i lavoratori dipendenti, tra gli autonomi e tra le persone giuridiche (srl, spa…). Apparirà evidente che la somma di tutti gli imponibili che compaiono nelle dichiarazioni dei redditi depositate dai lavoratori in Italia, e i 740 delle società di capitali che hanno sede in Italia, danno il Reddito Nazionale. Da qui al Prodotto Lordo Interno (cioè prodotto in Italia) il passo è breve. Basta togliere dal Reddito Nazionale ciò che i residenti in Italia producono all’estero, ma dichiarano in Italia, e aggiungere ciò che i residenti all’estero producono in Italia, ma dichiarano all’estero. L’ufficio centrale delle imposte dirette, che analizza tutte le dichiarazioni dei redditi, lo può calcolare con facilità.
Redditi lordi da lavoro dipendente + Redditi lordi da lavoro autonomo + Redditi lordi da capitale e impresa + Redditi lordi percepiti dagli statali + Redditi prodotti dagli Italiani all’estero - Redditi prodotti dagli stranieri in Italia + ----------------------------------------------------- PIL nazionale =
Qualcuno si aspetterebbe di trovare nell’elenco appena fatto i redditi da pensione, invece no. Essi sono già compresi nei redditi lordi dei lavoratori: i contributi Inps vengono trattenuti ai lavoratori e dati ai pensionati (metodo distributivo).
Metodo della spesa. Si basa sulla considerazione che il cacciatore caccia per mangiare, perciò, studiarlo mentre spara agli uccelli, oppure mentre li mette in pentola, il numero delle prede non cambia. Lo stesso accade in economia: contabilizzare un popolo mentre produce beni, oppure mentre li consuma, dà gli stessi risultati finali, perché in qualche modo tutto ciò che viene prodotto va anche consumato. Da questo punto di vista il PIL è uguale alla spesa nazionale ed è dato dalla somma di quattro voci:
Consumi finali delle famiglie + Spesa dell’apparato pubblico + Spesa per investimenti e scorte + Saldo export - import + ---------------------------------------------- PIL nazionale =
Per calcolare il contributo al PIL proveniente dalla spesa delle famiglie, basta sommare per un anno gli scontrini di cassa degli esercizi commerciali. I registri dei corrispettivi, inviati regolarmente da chi ne ha l’obbligo alle agenzie delle entrate, e le ricevute fiscali di tutti i beni nuovi (case, auto, barche) acquistati dai privati, forniscono con facilità questo dato. Si obbietterà che sommando i prezzi di vendita delle merci si includono anche i costi delle materie prime, fatto che sarebbe in contraddizione col metodo dei valori aggiunti. E invece no! Quelle che impropriamente comperiamo come materie prime sono già dei semilavorati. Le materie prime vergini (i minerali, gli alberi, la terra da mattoni, l’erba che mangiano gli animali, il carbone, il petrolio ecc.) vengono fornite gratis dalla natura. Chi se ne appropria, o ne detiene abusivamente il possesso, e le cede a pagamento, introduce il primo valore aggiunto della catena.
m = materia prima iniziale fornita a costo zero dalla natura. VA1.= valore aggiunto imposto da chi si dichiara proprietario della materia prima, e la vende. i1 = imposta sul valore aggiunto (Iva), da versare allo Stato. PA = prezzo di acquisto dei semilavorati da parte di un produttore intermedio o dell’acquirente finale. VA = valore aggiunto da ogni trasformatore. PV = prezzo di vendita
- Il Sig. W si appropria dei beni materiali, che trova in natura a costo zero, e vi aggiunge un elevato VA1 pur essendogli costato pochissimo lavoro. Incassa PVw. La quantità i1 (Iva) la sborsa il Sig. X ma la versa allo Stato il Sig. W. - Il Sig. X spende PAx per acquistare, vi aggiunge il valore VA2 sviluppando del lavoro e vende il suo prodotto al Sig. Y incassando PVx che gli compensa il prezzo e l’Iva di acquisto. Inoltre egli incassa da Y anche i2, l’Iva del valore da lui aggiunto. Questa la versa nelle casse dello Stato. Alla fine il suo guadagno è proprio VA2: il suo lavoro. - Il Sig. Y spende PAy per acquistare, vi aggiunge il valore VA3 sviluppando del lavoro e vende il suo prodotto al Sig. Z incassando PVy che gli compensa il prezzo e l’Iva di acquisto. Inoltre egli incassa da Z anche i3, l’Iva del valore da lui aggiunto. Questa la versa nelle casse dello Stato. Alla fine il suo guadagno è proprio VA3: il suo lavoro. - Il Sig. Z è l’utilizzatore finale. Egli spende PAz che è la somma dei tre valori aggiunti VA1, VA2, VA3 e delle tre Ive i1, i2, i3. L’Iva, dunque, grava tutta sul consumatore finale, mentre i produttori/trasformatori con una mano la spendono e con l’altra la incassano e la quantità maggiore la versano allo Stato.
La seconda voce della spesa nazionale è la pubblica amministrazione. È la parte di tasse raccolte dallo Stato che se ne va per stipendiare gli statali e per pagare le spese di gestione degli apparati relativi. Il terzo modo di spendere soldi è l’acquisto di macchinari, impianti e scorte di magazzino da parte delle aziende. Trattandosi di voci che nell’immediato non producono valore aggiunto, vanno considerate momentaneamente tra le spese. Ci sono infine da considerare le esportazioni. Sappiamo che un prodotto italiano che viene venduto e consumato in Italia va ad aumentare il PIL e viene contabilizzato da uno scontrino fiscale, perciò, pure se va a finire all’estero lo aumenta, cambia solo l’organismo preposto a registrare tali vendite. L’ufficio del commercio estero che contabilizza il transito delle merci alle frontiere è in grado di darne conto. L’import, naturalmente, diminuisce il PIL.
A questo punto risulterà chiaro che il lavoro è il motore di tutto: senza di esso il mondo si fermerebbe. Il lavoro produce da un lato dei beni di consumo che si accumulano presso i magazzini degli imprenditori e dall’altro (in parallelo) delle buste paga che vanno nelle tasche degli operai.
Il mercato, poi, porta i beni nelle case dei lavoratori e i soldi nelle tasche dei produttori, creando le condizioni per riattivare un nuovo ciclo produttivo. Tra il saldo dei valori aggiunti dalla produzione, il saldo dei redditi e il saldo della spesa nazionale c’è perfetta identità. Se così non fosse ci sarebbero accumuli o buchi, fatto che non si riscontra nella realtà. Siamo ora pronti per tirare delle somme. Lo Stato Italiano, nel bilancio del 2008, ha dichiarato che la pressione fiscale esercitata sul PIL è stata pari al 43,3%. Sì, hai capito bene; se il PIL è stato 1572 miliardi di Euro, 680,7 miliardi di Euro se ne sono andati in tasse. Una fetta di tasse lo Stato la preleva direttamente in sede di dichiarazione dei redditi, una parte la raccoglie quando uno fa benzina, quando paga le bollette di luce, acqua, gas, telefono, rifiuti ecc. e quando acquista alcoolici, carte bollate, tabacchi, biglietti delle lotterie... Ci sono poi le tasse di successione, quelle automobilistiche, quelle sulle assicurazioni, sui conti correnti, l’IRAP, l’ICI, i contributi previdenziali, l’INAIL ecc. L’ultima parte la incassa sotto forma di IVA quando il cittadino va per negozi. Le tasse vengono prelevate su tutti i cittadini, e consumate dalla macchina dello Stato, la quale, in verità, ne rende una parte ai cittadini sotto forma di servizi, sussidi e pensioni, ma una grossa fetta va a stipendiare l’esercito degli statali.
Lo schema S3/45-4 mostra come il settore privato sia l’unica fonte delle tasse, perché il comparto statale preleva i suoi redditi dal pentolone sociale. Il fatto che anch’esso paghi le tasse è solo una formalità: restituisce una parte di ciò che assorbe, ma non immette niente di fresco. Se fosse possibile esentarlo dal pagare le tasse potrebbe semplicemente essere stipendiato di meno. Domanda. Quanti statali può sopportare una nazione? E quanto possono spendere per il funzionamento del Sistema?
Considerando che gli statali sono equivalenti agli impiegati di una fabbrica, e che gli altri cittadini equivalgono agli operai, basterebbero pochi impiegati bravi per organizzare al meglio la collettività. Purtroppo, in Italia, gli statali sono così tanti da dissanguare e mandare in fallimento il Sistema. Essi sono 4,5 milioni circa, quando gli altri lavoratori attivi sono circa 18,5 milioni.
Ma non è tutto; essi sono di livello così scadente da nuocere all’organizzazione, anziché migliorarla. Un impiegato statale, si sa, ha senso quando il suo contributo fa produrre alla comunità un utile superiore allo stipendio che prende, non quando mangia a sbafo quello che producono i lavoratori. E il 43,3% del Pil in tasse è una enormità - esclama il popolo - il quale crede che quella percentuale si riferisca anche al suo stipendio, mentre ancora non sa che il Pil è un artificio inventato per nascondere che a ciascun lavoratore viene tolto in media circa il 68% dei suoi guadagni lordi. Il calcolo giusto, infatti, non è
Tasse totali ---------------------- => 43,3% Pil nazionale
Bensì
Tasse primarie --------------------------------=>68% Reddito da lavoro privato
Anche il presidente della CONFINDUSTRIA ha confermato in questi giorni (maggio 2012) che la pressione fiscale calcolata correttamente è del 68,5%.
È poi evidente che se la pressione fiscale media sui lavoratori è del 68%, quelli che dichiarano tutto (i più onesti) o che sono costretti a dichiarare tutto (i dipendenti), subiranno una tassazione ben superiore a quella degli evasori, i quali, ironia della sorte, considerano sé stessi furbi, e tali vengono considerati anche dal popolo, mentre sono solo dei gran farabutti. (Al 68% andrebbe aggiunta anche la tassa occulta rappresentata dall’inflazione). Resta qui da dire che è fisiologico che ci siano bambini, studenti e vecchi che non lavorano, ma si deve anche dire con chiarezza che in Italia sono troppi e troppo famelici quelli che a vario titolo si fanno mantenere senza lavorare. Tra questi vanno almeno citati i falsi invalidi, gli sfruttatori di professione e i fannulloni (quelli che al lavoro sono lavativi). Tutto ciò, accettato supinamente dal popolo, quasi fosse un fatto ineluttabile, sta mandando in crisi il Sistema. Passiamo ora ad un’altra questione. Si è parlato finora di PIL calcolato ai prezzi di mercato correnti. Accade però di dover confrontare una sequenza di PIL di diverse annate. Se, infatti, a causa dell’inflazione, i prezzi crescono, cresce il PIL nominale, ma non quello reale, perché il volume di lavoro è rimasto invariato. Occorre allora trovare un indice che consenta di sapere quanta parte della crescita è dovuta all’aumento effettivo delle quantità prodotte e quanta all’aumento dei prezzi causato dall’inflazione. Gli indici denominati “deflatori del PIL” ne danno conto, ma sono poco conosciuti. Una loro buona approssimazione sono gli IPC: indici dei prezzi al consumo. In Italia l’ISTAT rileva mensilmente i prezzi di un paniere contenente più di 600 voci di largo consumo e ne pubblica la variazione percentuale rispetto al valore di riferimento definito pari a 100 il 31dicembre 1995. L’IPC di oggi (03 05 09) è 135,1, il che significa che l’inflazione calcolata fra il 1995 e il 2009 è stata del 35,1% e che in prima approssimazione il PIL di oggi deve essere diviso per 1,351 per essere confrontato con quello del 1995.
Elenco qui di seguito alcuni valori dell’indice dei prezzi al consumo.
Si noti come da agosto 2008 a gennaio 2009 si sia avuta deflazione, e anche tra il 2004 e il 2006. Al lettore è opportuno ricordare che il PIL è stato definito come la somma dei valori aggiunti di tutte le attività. In realtà alcune vengono escluse, perché non sono oggetto di contrattazione sul mercato. Ne sono esempi la produzione agricolo-ortofrutticola destinata al consumo domestico, il lavoro delle casalinghe (mamme, colf, badanti), dei pensionati (nonni) e quello del volontariato. A dire il vero manca all’appello anche il giro di affari della malavita e della prostituzione. Questo numero, però, rappresentando il conteggio del malessere di una nazione, qualora fosse conosciuto andrebbe detratto dal PIL. In conclusione è obbligatorio evidenziare l’impossibilità di quantificare il PIL in misura precisa; esiste infatti in tutti i paesi un’economia sommersa che sfuggendo alle contabilità non può essere presa in considerazione nel calcolo del PIL. Molti studi, tuttavia, stimano che il lavoro nero in Italia stia tra il 15% e il 23% del PIL. Una simile indecenza umilia chi le tasse le paga e spinge la brava gente ad evadere il fisco. Tocca al cittadino semplice capire ciò che si nasconde all’ombra del Pil. E per il suo bene portarlo alla luce! [Tratto da L6/675] Ciascuna azienda anticipa al suo fornitore l’iva relativa ai suoi acquisti e ne incassa una quantità maggiore dai suoi clienti all’atto della vendita dei prodotti. L’eccedenza (iva vendite – iva acquisti) la versa allo Stato. Con questo meccanismo di raccolta il consumatore finale paga l’iva senza accorgersene, perché è inclusa nei prezzi, mentre chi la versa non soffre, perché non gli costa niente. Anche il prelievo sui redditi è ben mascherato: le tasse dei lavoratori le versa il datore di lavoro, e quelle dei datori le calcolano e le versano i commercialisti. I dolori dei prelievi durano da zero a poche ore.
[rif. www.lorenzoparolin.it S3/45]